L’Italia importa a caro prezzo canapa terapeutica per le cure antidolore dei malati. Ma incenerisce quella coltivata a fini di studio. Anche se ha lo stesso livello di “purezza”. Un paradosso delle nostre leggi
L’ultimo caso risale ai giorni scorsi. Da Rovigo si sono mossi in sette: tre dipendenti della Asl, due del Consiglio per la ricerca in agricoltura (Cra) e altrettanti finanzieri. Destinazione: Padova. Scopo del viaggio:bruciare 36 chili di cannabis, frutto della ricerca medica effettuata proprio a Rovigo dal Cra, ente vigilato dal ministero e autorizzato dal dicastero della Salute alla coltivazione. Un trasporto speciale, quello verso l’inceneritore, che ha tenuto impegnato il personale per una mezza giornata buona, fra tragitto e procedure burocratiche varie, e che è costato qualche migliaio di euro.
La cannabis data alle fiamme era il risultato di un anno di prove, sperimentazioni e selezioni varie ma anche semplici potature delle piante madre che vengono periodicamente spuntate per evitare che diventino troppo grandi: radici, arbusti e residui di foglie con un principio attivo relativamente basso ma anche qualche chilo di infiorescenze con un livello di thc attorno al 20 per cento. Esattamente quanto ne contiene ilBedrocan, uno dei medicinali prodotti dalle serre farmaceutiche olandesi e che l’Italia importa in grandi quantità, circa 40 chili solo nel 2015. E che, dietro prescrizione, viene rivenduto ai pazienti affetti da patologie neurodegenerative a prezzi stratosferici: 35 euro al grammo.
Tanto per avere un’idea della spesa, a chi è affetto da sclerosi multipla ne possono essere prescritti fino a dieci grammi al giorno. Con conseguenze economiche facilmente immaginabili, per chi non vuole ricorrere a mezzi di procacciamento più economici. E col risultato paradossale, peraltro, che quando questi prodotti sono arrivati sul mercato le narcomafie hanno alzato il prezzo della marijuana, assai più basso, e si sono arricchite ancora di più.
Dalla cannabis prodotta a Rovigo a fini di ricerca e poi bruciata si sarebbe potuto recuperare il principio attivo e diluirlo a seconda delle necessità per produrre estratti, fosse anche solo a fini sperimentali. Tanto più che proprio il Cra ha appena dato allo stabilimento chimico-farmaceutico militare di Firenze (che inizierà a breve la distribuzione sul mercato di prodotti a base di canapa medica) 130 talee, ovvero piccoli rami radicati nel terreno per ricreare la parte mancante. E la parte mancante era esattamente quella incenerita.
Ma è proprio necessario mandare letteralmente in fumo una simile opportunità? La risposta è sì: la legge non ammette il recupero del materiale studiato, che ogni anno va bruciato. Tanto, anche se lo consentisse, probabilmente per ragioni ideologiche verrebbe mandato comunque all’inceneritore. Come avviene ad esempio coi sequestri di marijuana operati dalle forze di polizia, malgrado la possibilità che lascia il testo unico sugli stupefacenti all’articolo 24: “Le sostanze confiscate o comunque acquisite dallo Stato sono poste a disposizione del ministero della Sanità che effettuate, se necessario, le analisi provvede alla loro utilizzazione o distruzione”.
Solo che la scelta finale è sempre quella della distruzione. Di utilizzazione nemmeno a parlarne. Meglio arricchire la lungimirante Olanda, dove a produrre cannabis terapeutica è direttamente lo Stato.
Fonte: espresso.repubblica